Piero Vittoria: “Come nasce Fabrizio D’Alisera musicista?“
Fabrizio D’Alisera: “Ho iniziato giovanissimo a studiare la chitarra classica, con cui ho conseguito da privatista l’esame di V anno di Conservatorio, voto con 9/10. In breve tempo ho capito che quello strumento, per quanto fosse fantastico, non esprimeva al meglio ciò che volevo fare con la musica. Ho acquistato quindi un sax tenore che è subito diventato il mio strumento principale. Credo però che il mio modo di suonare sia molto legato alla chitarra, strumento che comunque utilizzo moltissimo per comporre e per studiare. E’ fondamentale saper suonare uno strumento polifonico per comporre, tutti i migliori sassofonisti conoscono bene il pianoforte, ad esempio!”
P.V.: “Mr Jobhopper è un titolo sicuramente particolare: ce lo spiega?“
F.D’A.: “Volevo fare un disco che avesse rispetto per la tradizione ed allo stesso tempo esplorasse sonorità più moderne, da qui il titolo di “Mr. jobhopper” letteralmente “saltare da un lavoro all’altro”, al fine di restituire una maggiore flessibilità. Questa scelta mi ha permesso di poter scrivere musica avendo più possibilità nell’arrangiamento, sia come suono che come approccio alla composizione”.
P.V.: “Questo è un album dagli arrangiamenti classicamente jazzistici, che scorre molto piacevolmente all’ascolto: come sono nati i brani e ce n’è uno che secondo lei rappresenta al meglio l’intero lavoro?
F.D’A.: “Sono legatissimo alla tradizione del jazz ed al sound Blue Note, che secondo me ha scritto le migliori pagine jazzistiche di sempre. Credo che sia fondamentale, in qualunque campo artistico, la conoscenza della tradizione senza la quale non è possibile andare avanti. Scrivere un brano significa secondo me innanzitutto scrivere un bel tema, che abbia una sua vita propria, sia ritmica che melodica, pensando prima a questo che all’improvvisazione. Solo dopo che un brano suona bene nell’armonia e nel tema, passo all’improvvisazione. Viceversa, non basta un gran solo a salvare un brano che non funziona nella scrittura tematica. Ecco, penso sia anche per questo che non mi stancherò mai di suonare gli standard: il materiale tematico ed armonico è fantastico ed è molto musicale. Questo che credo ispiri la maggior parte di noi strumentisti di jazz…
P.V.: “C’è un brano che rappresenta al meglio il disco a suo giudizio?
F.D’A.: “Non so, forse proprio la titletrack è il brano che meglio rappresenta lo spirito dell’album. Racchiude più concetti, sembra un brano tradizionale hard bop, ma in realtà ha una struttura A di 20 misure e poi una B di 16 in cui il tempo passa in 3/4 e c’è un sapore ritmico di tipo afro. Poi su quel brano si espongono tutti i solisti, quindi penso sia una buona presentazione di tutta la band. Sono comunque affezionato a tutti i pezzi, non ce n’è uno che preferisco”
P.V.: “Mi ha molto colpito l’eleganza della seconda traccia “Second one”: come nasce?
F.D’A.: “Grazie! Second one è un brano che si rifà ad un mondo tra Ellington e Cole Porter, ma io quando scrivo non penso mai a questo. Sinceramente, pensavo fosse un bel tema, allora lo abbiamo suonato con il gruppo ed abbiamo deciso di registrarlo. Considero la composizione importante quanto l’improvvisazione o lo studio del fraseggio e della tecnica, dedico ad essa tanto tempo, tanto quanto allo studio dello strumento ed all’ascolto dei dischi. Ad esempio, penso che una bella ballad sia sempre qualcosa in grado di affascinarci, su una bella ballad gli spazi sono ampi e si può far – diciamo così -cantare lo strumento, nel senso più lirico del termine”.
Intervista a cura di Piero Vittoria