Una nuova grande pagina di musica firmata dal genio artistico e letterario di Max Manfredi. Una nuova pagina che non smentisce ma conferma, che non lascia spazio a grandi novità estetiche ma ribadisce un alto profilo culturale, forse troppo poco populista ma di sicuro bandiera e vanto di quella classe operaia della cultura e dell’arte che invade – raramente – anche la musica italiana.
L’incontro “digitale” con un artista che ha ben oltre 20 anni intensi di gratificante carriera. Ecco l’intervista per FullSong realizzata da Piero Vittoria.
Nella crisi di oggi, presenza incontrastabile quasi su ogni fronte, diventa più pesante del solito fare un certo tipo di musica, promuovere un certo tipo di cultura?
“Sì, è una crisi culturale ed economica, che si manifesta anche con un sovrappiù di offerta rispetto alla domanda e, conseguentemente, con una difficoltà maggiore nelle mediazioni. Non è da ieri. il mercato culturale ha avuto un buon momento intorno agli anni sessanta e settanta, anche per ciò che riguarda le canzoni. Verso la metà degli anni ottanta, a causa di diversi fattori, si è asciugato, è imploso”.
La tua canzone è poesia. Coscienti tutti di fare immediatamente un’importante selezione del pubblico pagante. Cos’è? Una scelta? Un bisogno? Un puro gioco del caso? Oppure è un obiettivo ben mirato date le tue indiscusse possibilità?
“Oggi si tende a separare le due discipline, canzone e poesia; che restano d’altronde consaguinee, più che dirimpettaie. Salviamo ogni differenza, quindi, e vediamo di non appoggiarci troppo alle categorie. E a non far dell’assiologia fuori posto. Cantare, dire in musica, incarnare la parola, o almeno incarnirla, è una scelta per modo di dire, un bisogno, senz’altro, una fatalità, un gioco del caso, ma anche un tentativo e un azzardo, e infine un “mestiere”, termine etimologicamente vicino a “ministero” come a “menestrello”. Il mestiere presuppone un compenso. Quando i guadagni sono superati dalle spese, diventa un hobby costoso, o un vizio”.
Quanto c’è di autobiografico tra le venature metaforiche di queste canzoni?
“La mia percezione linguistica, la mia sensibilità, i miei ricordi e i miei sogni. Ma le canzoni son fatte per far parlare un altro”.
Raccontare o raccontarsi attraverso immagini per niente scontate e per niente immediate, è a suo modo un mezzo per nascondersi da qualcosa? Oppure è uno strumento che scegli per stimolare la fantasia e l’analisi del tuo pubblico?
“Certamente, più l’attore si sputtana, più si sottrae e si nasconde. Le mie immagini sono necessarie, non certo alla società, ma a loro stesse e, in una qual certa misura, a me. Capita poi che acquistino quest’aura di necessità anche in chi le ascolta. Insomma, di necessità emotiva, nervature di innamoramento”.
Figli e figliocci. Teatro, libri e racconti, musica e letture. Ti è mai capitato di pensare che una strada fosse più tua di altre?
“Non ho avuto abbastanza genio specifico, allenamento ed energia per essere: un uomo di teatro, un romanziere o un poeta puro, un musicista puro… ammesso che queste designazioni abbiano senso. Queste tre discipline, questi tre linguaggi (musica, poesia, scrittura e azione scenica) si fondono, del resto, più o meno pigramente, nella disciplina del cantante e autore. E’ lui che “agisce” ciò che ha scritto. Le parole che canta si inscrivono sul suo viso, e persino sul suo corpo, come i terribili pennini del racconto di Kafka”.
Italia o resto del mondo? La tua musica che è contenuto, cultura e ricerca. Dove pensi goda di maggiore plauso e attenzione? Il pubblico è uguale un po’ ovunque o sono forse veri certi luoghi comuni sul nostro paese?
“Il nostro paese negli ultimi decenni è stato soggetto a un vero e proprio lavaggio del cervello mediatico, una vera subdola rivoluzione culturale, più che altre parti del mondo, o anche solo dell’Europa. La portata di questo lavaggio del cervello è palpabile, non tanto e non solo per ciò che riguarda il pubblico, ma per quel che concerne i mediatori. Io mi trovo a mio agio fuori dall’Italia, ho suonato in Germania, in Ecuador, in Turchia, in Svizzera, e mi son divertito. Mi piace anche suonare in Italia. Qui il problema culturale non riguarda tanto la possibilità del pubblico di ascoltarti rapito, ma la difficoltà a trovare concerti importanti, magari anche economicamente, se non si fa parte di piccoli o grandi gruppi di potere. Le tasse e le gabelle d’ogni genere fanno il resto, strozzano in pratica ogni iniziativa imprenditoriale personale, compresa quella dell’artista imprenditore di se stesso. Non vedo possibili, d’altronde, mediazioni importanti che aumentino le possibilità del prodotto d’arte, se non sulla scorta di ulteriori spese”.
Davvero la curiosità di saperlo (te l’avranno chiesto mille volte e mi aggiungo alla lista). Perché “Dremong”? Davvero un titolo fuori da ogni aspettativa per un disco di grande canzone d’autore…
“Bel suono, Dremong, brivido di freddo e paura e colpo di Gong. Titolo ad effetto, potrebbe essere il nome di un ignoto gruppo di progressive italiano degli anni ’70…”
Intervista a cura di Piero Vittoria