Lele Boccardo: “Vi racconto le tribute band ne “Il rullante insanguinato”. L’intervista

Parla l’autore del libro musicale del momento.

LELE BOCCARDOLELE BOCCARDO

Lele Boccardo, già storico pioniere delle radio libere in quanto tra i primi speaker e dj italiani negli anni ’70, è una delle penne più schiette e sincere della musica italiana. Un critico musicale della nuova leva, che già al ‘Dopofestival’ di Sanremo 2017 si è distinto per i suoi pareri al vetriolo, ma brillanti e fondati al tempo stesso, sull’attuale stato dell’arte della nostra canzone. Giornalista e scrittore, nonché attento osservatore dei fenomeni del cambiamento in atto nella società moderna in fatto di musica, dopo il brillante debutto con l’opera prima, dal titolo ‘Un futuro da scrivere insieme’ (Seneca Edizioni), ora passa al thriller avendo da poco dato alle stampe ‘Il Rullante Insanguinato’ (Sillabe di Sale Editore), primo romanzo noir musicale italiano, che verrà presentato il 21 maggio nel prestigioso contesto internazionale del Salone del Libro di Torino. Un libro ottimamente recensito dalla migliore stampa specializzata, che sta ottenendo importanti riscontri di vendite, critica e pubblico. Lele Boccardo, che sognava di fare il batterista, invece, è diventato un bravo giallista sui batteristi. Fullsong.it l’ha incontrato per voi, per parlare di quest’opera e di musica.

“Il Rullante Insaguinato” è il primo romanzo noir musicale italiano. Di che cosa parla?
Il romanzo, ambientato principalmente a Torino nella primavera-estate del 2008, parla di un serial-killer che colpisce i batteristi di alcune tribute band. Le forze dell’Ordine, come si dice in questo casi, “brancolano nel buio”, perchè il killer è furbo, scaltro e non lascia tracce dietro di se. Sarà un investigatore privato, ex bancario ed amico di una delle vittime, a scoprire l’assassino, mettendo a rischio la sua stessa incolumità. Parallelamente, racconto una seconda storia, descritta con qualche piccolo spot, nei primi capitoli, che poi “esplode” nel finale, con un colpo a sorpresa.
Com’è nata l’idea di quest’opera?
Era da parecchio tempo che avevo intenzione di scrivere un thriller, o comunque un romanzo con della suspence. Ma mi mancava l’ispirazione giusta. Poi, una sera, sono andato ad assistere ad un concerto di una tribute band, con l’idea di fare un articolo per il quotidiano on-line, Civico20 News, per il quale scrivo e curo una rubrica proprio su questo fenomeno. Dopo la seconda canzone, volevo già andarmene. Non tanto per la band in generale, quanto per il batterista che era proprio negato, tanto che ho pensato: “Sarebbe da sopprimere, per quanto suona male”. Così ho cominciato a distrarmi e a guardarmi attorno. Al bancone del bar, ho notato un tipo col berretto calcato sugli occhi e gli occhiali da sole, nonostante fossimo al chiuso, ed improvvisamente ho avuto il lampo, come si suol dire. Appena tornato a casa, ho cominciato a prendere appunti, e pian piano ho creato la storia, i personaggi, l’ambientazione, eccetera. La scelta di coinvolgere le tribute band è stata la logica conseguenza.

Che incidenza culturale ha, in Italia, il fenomeno delle tribute band di cui parli nel tuo libro?
E’ un fenomenoin continua evoluzione. Sono sempre più numerosi i musicisti che si cimentano con questo tipo di show. Lo considero un modo “alternativo” di fare musica, che va incontro ai gusti dei fans, amanti di un determinato artista. Non crediate sia facile, però: ci vuole studio, prove, abnegazione e soprattutto cuore e passione. Senza di questi ultimi, non si va da nessuna parte.

La prefazione è doppia, di Maurizio Scandurra e di Andrea Mingardi: come hai conosciuto il bluesman bolognese?
Innanzitutto vorrei ringraziare Maurizio Scandurra, amico, collega e mio press-agent, per le belle parole che mi ha dedicato. Insieme formiamo una bella squadra, senza dimenticare Tina Rossi, mia compagna di vita e non solo, senza la quale non sarei qui, visto che è stata lei a far “rinascere” Lele Boccardo, che, per una serie di motivi, giaceva in stato “catatonico”. Andra Mingardi l’ho incontrato per la prima volta nell’estate del 1982. All’epoca facevo lo speaker radiofonico e curavo le interviste con gli artisti. Andai ad un suo concerto al Parco della Pellerina, all’epoca si chiamavano “Punti Verdi”, conoscendo di lui solo un paio di singoli, “Datemi della musica” e “Pus”. Mi trovai ad assistere ad uno spettacolo mai visto prima, intitolato “Xa vut dalla vetta” (Cosa vuoi dalla vita, ndr), basato sul disco omonimo, primo album di rap in Italia, tra l’altro. Ebbene assistetti ad uno spettacolo pazzesco, quasi un musical, con monologhi, cabaret, travestimenti e tanta musica. Semplicemente fantastico. Dopo lo spettacolo lo incontrai e passammo almeno due ore a parlare, a raccontarci: Andrea è una persona squisita, simpatica, arguta, da buon bolognese qual’è, e disponibile come pochi. Nel corso degli anni ho assistito ad altri suoi concerti e quando ho ricevuto via mail, la prefazione che aveva scritto per me, mi sono quasi commosso. Non lo ringrazierò mai abbastanza.

“Il Rullante insanguinato” è una della novità di punta del Salone del Libro di Torino. Quando lo presenterai?
Voglio sottolineare, se mi permetti,che sarà presente anche la mia casa editrice”Sillabe di Sale”, con il proprio stand. Per quanto mi riguarda, presenteremo “Il rullante insanguinato” domenica 21 maggio, alle ore 18,00 presso la “Sala Romania”.

Lele, sei un noto critico musicale: quale lo stato dell’arte della musica italiana?
Penso che ci troviamo in una situazione senza uscita. Ci sono due aspetti da considerare: uno, la musica, e quindi l’industria discografica, che è schiava dei “talent-show” ed agisce di conseguenza, Cantanti, o presunti tali, buttati allo sbaraglio, senza preparazione, senza la doverosa “gavetta”, come si diceva una volta. Mi ricordo di Marco Masini, tanti anni fa, tastierista nella band di Umberto Tozzi, per “farsi le ossa”. I risultati di tale tirocinio, mi sembrano abbastanza evidenti. Adesso non succede più. Siamo circondati da musica “usa e getta” ed anche in questo caso i risultati sono alquanto evidenti: cantanti che durano al massimo un paio d’anni e poi cadono nel dimenticatoio. E qui tocchiamo il punto due: sta diventando un ambiente contaminato dal “caporalismo”, dove i giovani sono ammaliati da un successo che è solo mediatico e che non porta a reali guadagni personali, ma che fa ricche le poche major ancora presenti sul mercato . Il Festival di Sanremo di quest’anno, anzi del triennio targato Carlo Conti, mi pare emblematico. Mi chiedo se tra trent’anni, ci ricorderemo ancora di Michele Bravi, Sergio Sylvestre o di Francesco Gabbani.

Michele Monina e Red Ronnie hanno detto che i talent sono morti. Quale il tuo pensiero, invece?
Per quanto mi riguarda non sono mai nati.

Parlaci del rapporto discografia e tv.
Un rapporto perverso, dove una è schiava dell’altra e viceversa.

Quale la ricetta per risanare la musica italiana, secondo te?
Servono innanzitutto dei talent- scout degni di questo nome, servono manifestazione come “Castrocaro” dove le nuove proposte possano davvero farsi conoscere.

Un artista emerso negli ultimi dieci anni che secondo te fa la differenza?
Se permetti ne cito due, un solista e una band. Ermal Meta, che ho avuto modo di conoscere personalmente a Sanremo: bravo performer, grande autore e ragazzo senza peli sulla lingua, come piace a me. Poi Le Vibrazioni, l’unica band degna di questo nome del nuovo millennio: un pugno di ragazzi che sono arrivati al successo dopo anni di gavetta nei locali milanesi e non solo, guardacaso.


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