Edoardo Pasteur: l’esordio americano

Da un titolo così si potrebbe intuire che finalmente Edoardo Pasteur fa il suo approdo nella terra a stelle e strisce.

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Diciamo subito che siamo di fronte a  un italiano che, ad oggi ha dedicato la sua vita allo sport, coltivando letteratura e cinematografia americana (e non solo) con passione.
Diciamo anche che la sua pronuncia tradisce l’italiano madre lingua che è in tutti noi. Diciamo poi che il mito di Cohen e di Dylan sono evidenti. Quello che resta da dire è che questo “Dangerous Man” sa perfettamente fare il gioco di un americano ispirato, sa come si sta in scena, sa come dosare gli equilibri e sa anche come restituire bellezza nonostante non sia naturalmente suo l’habitat che costruisce attorno. Troppa poca psichedelia per restare fedeli a quell’imprinting pink floydiano che inevitabilmente rivediamo in un certo modo di suonare la chitarra e in quello strato finemente ricamato di sint (che avrei voluto fossero stati hammond) a far da tappeto un po’ ovunque. Salta all’occhio il brano “Carry the fire (The Road)” che testualmente richiama e cita il famoso romanzo di Cormac McCarthy e che ad ascoltarlo lo avrei preferito decisamente più polveroso, più instabile e sospeso più che una ballata quasi alla Mark Knoplfler (suoni a parte s’intenda). Troviamo anche andamenti irish come in “Fire” o anche momenti noir con una tromba magistralmente in sordina come in “Come sit by my fire”. Un progetto davvero ambizioso, forse troppo per giocarselo come esordio. Gli riconosciamo il coraggio e la forza per averci provato. Gli riconosciamo la capacità di averci fatto dimenticare d’essere in Italia per molti tratti – voce a parte – e gli restituiamo la voglia e la curiosità di capire cosa accadrà in futuro. Se il buongiorno si vedere dal mattino…


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